Tra i territori del Mediterraneo, l’Italia è quello più esposto agli effetti dei cambiamenti climatici e senza una gestione integrata dei rischi, nonché una visione articolata delle soluzioni di mitigazione o adattamento in grado di limitarne gli impatti, potrebbe diventare, entro la fine del secolo, un Paese difficilmente vivibile ed economicamente instabile.

Non sono positivi i risultati che emergono dall’ultimo rapporto della Fondazione Cmcc – Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici –Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia che confermano l’urgenza di sostenere e favorire una radicale conversione ecologica dei nostri modelli di produzione e di consumo, in coerenza tanto delle prescrizioni e ambizioni dei progetti comunitari delgreen deal e del recovery fund quanto degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.

Lo studio degli scienziati e dei ricercatori del Cmcc, sviluppato secondo un approccio transdisciplinare e interscalare, rivela, infatti, la complessità e la fragilità del contesto italiano ferito dai cambiamenti climatici, ma anche, potenzialmente, le opportunità per il nostro Paese se sarà capace di trasformare i rischi in occasioni di sviluppo economico ambientalmente conveniente e di progresso ecologico socialmente resiliente.

Questo studio – ha spiegato Donatella Spano, docente di Sistemi arborei all’Università di Sassari e coordinatrice del team di trenta ricercatori che hanno co-firmato il rapporto – oltre a rappresentare il punto più avanzato della conoscenza degli impatti dei cambiamenti climatici in Italia, illustra anche le possibili soluzioni che potrebbero essere sperimentate per favorire la transizione energetica e la conversione ecologica della nostra economia”.

Il rapporto, suddiviso in cinque unità (analisi degli scenari climatici attesi per l’Italia; il rischio aggregato per l’Italia; analisi del rischio atteso per l’Italia: settori chiave; costi, strumenti e risorse; iniziative di adattamento) e arricchito da diverse infografiche volte a descrivere meglio i singoli fenomeni, documenta, in particolare, che entro il 2100 la temperatura – analizzata per diversi scenari sia su valori medi sia su valori estremi – potrebbe aumentare fino a 5°C (rispetto al periodo 1981-2010), con la crescita esponenziale di eventi estremi e una perdita economica fino all’8 per cento del prodotto interno lordo pro-capite. Come confermato, del resto, anche dagli studi più recenti dell’Ipcc, opportunamente ripresi dal report del Cmcc, il Mediterraneo è un hotspot per i cambiamenti climatici e, dunque, in assenza di adeguate misure di prevenzione e gestione dei rischi, le condizioni di vulnerabilità – sociale, culturale, ambientale ed economica – non potranno che aumentare. Gli eventi estremi, sempre più ricorrenti anche nelle cronache dei quotidiani e la cui probabilità è aumentata del 9 per cento negli ultimi 20 anni, si caratterizzeranno per la loro brevità, ma soprattutto per la loro intensità e frequenza.

Le città sono già e saranno sempre più le protagoniste dei nuovi metabolismi territoriali, sia per essere i luoghi nei quali sono concentrate le principali attività industriali ed economiche-finanziarie delle persone, per lo più ancora fortemente energivore e ambientalmente dannose, sia per essere le strutture policentriche che maggiormente impiegano i cosiddetti servizi ecosistemici – ossia i benefici multipli prodotti dalla natura a beneficio dell’uomo – tradizionalmente generati nelle aree periurbane e rurali.

Le città italiane, pertanto, accomunate da Nord a Sud dai fenomeni del consumo di suolo e dell’artificializzazione delle risorse naturali, nonché del rischio idrogeologico, per cercare di non consegnare alle prossime generazioni un insostenibile “debito ecologico” dovranno necessariamente dotarsi di strumenti e risorse tesi a contenere patologie urbane di nuova generazione come le isole di calore e le notti tropicali (ossia quando la temperatura minima serale si attesta oltre i 20°C). Per sostenere la gravità della situazione e sottolinearne la complessità, lo studio del Cmcc evidenzia come le croniche variazioni di temperatura media – che peraltro confermano la difficoltà del nostro Paese di ottemperare all’Accordo sul clima di Parigi del 2015 – stiano producendo incrementi di malattie respiratorie e di mortalità per cardiopatie ischemiche, ictus, nefropatie e disturbi metabolici da stress termico, a danno, rispettivamente, di bambini e anziani.

Non solo il suolo urbano, tuttavia, tra le vittime designate dai cambiamenti climatici. A preoccupare gli scrupolosi estensori del rapporto Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia anche il suolo agricolo, il patrimonio forestale e la risorsa idrica. La crescita della desertificazione e dell’aridità di molti terreni rischia di ridurre drasticamente, soprattutto nel Mezzogiorno, la quantità e la qualità dei raccolti concorrendo, inoltre, a depotenziare la capacità di stoccare nel sottosuolo un gas climalterante come la CO2. Gli shock termici, in modo particolare ove si manifestasse lo scenario di un aumento della temperatura di 4°C, produrrebbero gravi disturbi ai bestiami allevati con ripercussioni su tutta la filiera agricola. Analogamente, non dimenticando l’origine antropica di molti degli eventi estremi descritti nel report, viene sottolineato come la siccità e l’abbandono colturale di molte superfici boschive aumenti il rischio di incendi, con danni inestimabili agli ecosistemi e per la perdita di biodiversità. E dall’Amazzonia alla Siberia, dall’Australia alla California dei giorni scorsi, le immagini degli incendi hanno fatto il giro del mondo rivelando come l’accelerazione degli episodi di devastazione del Creato impongano risposte sempre più solidali e sempre più globali.

Le stesse preoccupazioni, tuttavia, sono riservate alla tutela di un bene ecologico limitato come l’acqua. I cambiamenti climatici determinano una riduzione della quantità, sia superficiale che sotterranea, e un peggioramento della sua qualità, nonché dei flussi di disponibilità. Soprattutto la mancanza di acqua pulita e potabile, a danno di donne e bambini, ma anche di attività agricole di prima sussistenza, da molti territori dell’Africa ed entro la fine del secolo, potrebbe muovere verso l’Europa oltre 250 milioni di nuovi “profughi climatici”.

A conferma, perciò, che le questioni ambientali e sociali sono e saranno sempre più interconnesse tra di loro, senza distinzioni geografiche ed antropologiche, sarà necessario da parte del nostro governo non sprecare questa ultima e irripetibile occasione rappresentata dal green deal per trasformare il nostro Paese in uno scrigno di biodiversità e in un innovativo hub per lo sviluppo sostenibile.